La mente politica e la politica della mente - In ognuno di noi sedimenta un “inconscio cognitivo” fatto di metafore, emozioni positive (empatia, curiosità) e negative (paura, rabbia), che influenzano i pensieri e i comportamenti. Infatti la scienza della mente sembra dimostrare che “il 98 per cento dell’attività mentale ha luogo senza che ne siamo consapevoli” (Lakoff, p. 3; Michael Gazzaniga). Ciò non significa l’emozione sia sempre dannosa nella persuasione politica: le emozioni appropriate sono legittime e razionali poiché facilitano le scelte personali e sociali (Drew Westen, La mente politica, 2008). Però il pensiero conscio e riflettente come il guardarsi in uno specchio, permette di conoscere i processi della nostra mente e di controllare e valutare personalmente le nostre decisioni (p. 11). Comunque, se si analizza il panorama politico mondiale si può verificare che “gli ultraconservatori sono stati anche molto abili nel perseguire obiettivi occulti che corrispondono ai loro valori. Fare in modo che gli obiettivi occulti diventino visibili è un altro vantaggio della scienza cognitiva. Conservatori e progressisti non hanno soltanto obiettivi e valori diversi. Essi hanno modi di pensare molto diversi” (p. 52). Quindi “La posta in gioco è la più profonda forma di libertà, la libertà di controllare la propria mente. Per fare ciò dobbiamo rendere l’inconscio conscio” (p. 21).

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La cultura non ha mai avuto vita facile, in Italia. Nel 1861, il 75% della popolazione non sa né leggere né scrivere. Le riforme scolastiche che si susseguono fino all’epoca fascista mirano ad alfabetizzare, condizione sempre più necessaria per poter lavorare: viene istituita la scuola dell’obbligo dai sei agli undici anni. Nel 1951, gli analfabeti sono ancora il 13,8% (il 25% nelle isole) e i semianalfabeti – appena in grado di scrivere il proprio nome e incapaci di comprendere un testo scritto – sono il 26%; inoltre, il 60% della popolazione si esprime unicamente in una lingua dialettale. Il ministero della Pubblica istruzione decide di usare la televisione in funzione pedagogica, per uniformare la lingua e per alfabetizzare. Nel 1958 Telescuola avvia il ciclo di trasmissioni cosiddette educative, a cui si affianca Telemedia, nel 1961. Contemporaneamente nasce Non è mai troppo tardi (1960-1968), con un approccio completamente diverso: protagonista non è più il maestro che trasmette il sapere ma lo diventano gli studenti/pubblico, in studio e a casa. Il docente diviene una sorta di conduttore, che falsamente – la televisione che entra nelle case è sempre qualcosa che cala dall’alto – fa da guida ‘tra pari’, tenendo insieme testi, immagini, supporti audio, filmati e interviste. Gli italiani si uniformano: imparano non solo a leggere e scrivere ma una lingua e una ‘cultura’ nazionale; avviene quell’omologazione che Pasolini chiamava “genocidio culturale definitivo”. Non poteva andare diversamente per un popolo che, nel proprio percorso storico, ha saltato a piè pari la trasmissione del sapere basata sulla cultura tipografica dei libri e dei giornali ed è passato direttamente dall’analfabetismo alla cultura visiva della televisione: il nonno semianalfabeta, il nipote laureato, conviventi in una casa priva di libri.

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