martedì 10 settembre 2013

MASSIMILIANO PANARARI: Pedagogia reazionaria è un’espressione molto appropriata. Ed è, infatti, per molti versi, il Leitmotiv della storia di questo ultimo trentennio, coincidente con il dominio sempre più incontrastato del neoliberismo, ovvero di un tipo di economia ossessionata unicamente dalla creazione di profitto. Il vero e proprio «integralismo» e «fondamentalismo di mercato», come lo chiamano giustamente alcuni studiosi. Una tipologia di economia che «mette tutto in produzione» e spreme anche le nostre teste e i nostri desideri per ricavarne soldi; anzi, in questa nostra epoca cosiddetta postmoderna, dove c’è sempre meno economia reale e produttiva, e sempre più finisce per assumere un connotato immateriale e smaterializzato, di qui deriva la principale e più impressionante fonte di profitto. All’indomani della crisi petrolifera del 1973 e della successiva stagflazione negli Stati Uniti (il sommarsi dei fenomeni di stagnazione, inflazione e disoccupazione che, tra il 1973 e il ’75, passò dalla percentuale del 5 a quella dell’8,5%), si produsse la fine scioccante del lungo (e, si riteneva comunemente, interminabile) periodo di benessere e prosperità seguito alla seconda guerra mondiale. Ne emerse una nuova e durissima fase economica che fornì l’occasione per mettere definitivamente in questione anche il modello di sviluppo e di regolazione dei cicli del capitalismo fondato sulle politiche economiche scaturite qualche decennio prima dalla (fausta) «rivoluzione keynesiana». Ovvero, l’attacco all’idea stessa di Welfare e di Big government, sulla base della necessità, dettata dagli effetti della crisi, di avviare un significativo «dimagrimento» degli apparati pubblici. Ma, ancor più propriamente, a venire contestata, per la prima volta, era la stessa visione di uno Stato che si incaricava di supportare e di soddisfare le esigenze di varie fasce dei suoi cittadini, travalicando l’idea di Stato «guardiano notturno» cara a un certo filone della tradizione politico-culturale liberale. Di qui, il circolare via via sempre più intenso, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, di una serie di teorizzazioni sullo «Stato minimo», e la soggiacente volontà politica di una parte delle classi dirigenti di smantellare il «compromesso socialdemocratico» dal quale era stata partorita l’idea del Welfare State. Si doveva «affamare la belva» – uno degli slogan principali della vittoriosa campagna elettorale del 1980 di Ronald Reagan, e un’espressione che l’ex attore ripeterà molto di frequente nella sua carriera politica – ossia imporre la riduzione della spesa pubblica, così da costringere lo Stato a un dimagrimento forzoso. Un’idea, quella della riduzione del ruolo dello Stato e del pubblico, che penetrerà profondamente nel corpo sociale, diventando la nuova visione del mondo condivisa da una parte significativa degli americani grazie a un lavoro capillare di influenza e riorientamento dell’opinione pubblica. Un’attività svolta, in primo luogo, attraverso think tank, centri studi e istituti di ricerca che dovevano preparare i materiali ed elaborare le nuove idee da far circolare tra i circoli e le élites neoconservatrici e, quindi, una volta adeguatamente volgarizzate, anche presso la popolazione mediante l’«artiglieria pesante» delle televisioni e dei mezzi di comunicazione di massa. Insomma, una perfetta operazione di costruzione di una nuova egemonia culturale, di tipo neoliberale.

http://educazionedemocratica.org/?p=489#more-489

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