lunedì 7 ottobre 2013

L’art. 21 della Costituzione riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, la scrittura e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere assoggettata ad autorizzazioni o censure. Se la ratio della norma era quella di abbattere le censure poliziesche che il regime fascista aveva imposto ai giornali - quali i controlli amministrativi e il sequestro preventivo delle pubblicazioni - in modo da rendere la stampa lo strumento di controllo della collettività sull’operato dello Stato, la sola menzione della carta stampata ne è chiaramente un limite. Esso però è emerso successivamente, con l’evolvere della tecnologia e la diffusione di altri mezzi di comunicazione, quali la radio, la televisione e, più recentemente, internet. Nella società moderna la carta stampata ha ormai ceduto il passo alla televisione, che può essere considerata, al momento, il più importante veicolo informativo e formativo della società. Il primo intervento normativo ravvisabile nell’ordinamento italiano in materia di telecomunicazioni è il Regio decreto 1067 del 1923, con il quale si affidava allo Stato l’esclusiva sulle trasmissioni radiofoniche, da esercitare tramite società concessionarie. Nasce quindi da un provvedimento normativo, con la fusione della società Radiofono di Guglielmo Marconi con la Sirac - creata dal primo ministro delle Comunicazioni d’Italia Costanzo Ciano - l’Unione Radiofonica Italiana (URI). È il 1924. Nel 1928 l’Uri viene trasformata in Eiar – Ente italiano audizioni radiofoniche. Il 26 ottobre 1944 L’Eiar assume la nuova denominazione Rai, Radio audizioni italiane, passando alle dipendenze del ministero delle Poste. Il 10 aprile 1954, in seguito alla partenza del servizio televisivo regolare avvenuta il 3 gennaio 1954, assume la denominazione che oggi conosciamo: Radiotelevisione italiana. Il segnale arrivò a coprire tutto il territorio nazionale solo due anni dopo. Gli abbonati erano relativamente pochi, solo 360.000, a causa del costo elevato degli apparecchi. Negli anni Sessanta la crescita economica e l’aumento dei consumi favorirono la diffusione della televisione, che divenne accessibile anche alle classi meno agiate. Le trasmissioni del secondo canale Rai iniziarono nel 1961, mentre il terzo canale vide la luce alla fine del 1979, in posizione di sostanziale monopolio, almeno giuridico. Monopolio che iniziò a vacillare all’inizio degli anni Settanta, con la nascita delle prime emittenti private a diffusione locale che, alla luce della concessione esclusiva delle frequenze alla televisione di Stato, operavano in regime di illegalità. Chiamata a risolvere la questione, la Corte costituzionale si esprimeva, con sentenza 225 del 1974, a favore del monopolio di Stato, in quanto considerato l’unica gestione in grado di garantire il pluralismo. La esiguità delle frequenze rendeva impossibile la coesistenza di un alto numero di soggetti, il che prefigurava l’affermazione di un oligopolio, che avrebbe potuto avere effetti ben peggiori del monopolio di Stato. Secondo la Corte, “la radiotelevisione adempie a fondamentali compiti di informazione, concorre alla formazione culturale del paese, diffonde programmi che in vario modo incidono sulla pubblica opinione e perciò è necessario che essa non divenga strumento di parte: solo l'avocazione allo Stato può e deve impedirlo”. Osserva poi che “non essendo controvertibile che il numero delle bande di trasmissione sia limitato, la liberalizzazione inevitabilmente si tradurrebbe in una effettiva riserva di pochi, comportando con ciò grave violazione di quel principio di eguaglianza che è cardine del nostro ordinamento e la cui scrupolosa osservanza si impone specialmente là dove venga in giuoco l'esercizio di un fondamentale diritto di libertà. La verità è che proprio il pubblico monopolio - e non già la gestione privata di pochi privilegiati - può e deve assicurare, sia pure nei limiti imposti dai particolari mezzi tecnici, che questi siano utilizzati in modo da consentire il massimo di accesso, se non ai singoli cittadini, almeno a tutte quelle più rilevanti formazioni nelle quali il pluralismo sociale si esprime e si manifesta. Che, anzi, è proprio questa un'ulteriore via attraverso la quale si devono raggiungere quei ’fini di utilità generale’ in funzione dei quali l'art. 43 Cost. rende legittima la riserva: il monopolio pubblico, in definitiva, deve essere inteso e configurato come necessario strumento di allargamento dell'area di effettiva manifestazione della pluralità delle voci presenti nella nostra società”.

http://www.rivistapaginauno.it/pluralismo.php

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