giovedì 26 settembre 2013
L'Italia di Berlusconi come caso di studio per la scienza politica - È difficile, in un’Italia su cui l’ombra di Berlusconi è ancora così lunga e densa, riuscire a parlare dell’età berlusconiana con approccio scientifico, seguendo l’indicazione spinoziana di comprendere le azioni umane senza ridere, né piangere, né detestare. Tentano comunque di farlo alcuni saggi che, quasi presagendo il declino di un’epoca, iniziano a farne un bilancio, senza peraltro riuscire a pronunciarsi sull’eredità che ne conseguirà. Considerando l’Italia di Berlusconi, una delle difficoltà interpretative più evidenti nasce sul piano della teoria delle forme di governo: qual è l’estensione del concetto di democrazia? Di che genere è la crisi della democrazia italiana che tanti volumi hanno descritto e continuano a descrivere? Che rapporto c’è tra quella crisi, nella sua fase attuale, e l’impronta che Berlusconi ha dato al fare politica in Italia? Luigi Ferrajoli ha recentemente scritto di una crisi duplice, dall’alto e dal basso: richiamando l’ultimo articolo della Costituzione francese dell’anno III, che affidava la stessa Costituzione alla lealtà dei pubblici poteri e alla «vigilanza dei padri di famiglia, alle spose e alle madri, all’affetto dei giovani cittadini, al coraggio di tutti i Francesi», Ferrajoli fa notare che in Italia sono venute meno precisamente quelle due garanzie, «la lealtà dei titolari dei poteri di governo [...], essi stessi promotori della deformazione costituzionale», e la «vigilanza di una parte rilevante dell’opinione pubblica, anestetizzata dalla propaganda» (Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011, p. VIII). Il ruolo di Berlusconi nel generare tali dinamiche è rilevante; talmente rilevante, tuttavia, che rischia di far perdere di vista l’intricatissima rete di agenti e di fenomeni che precedono lo stesso Berlusconi o che, indipendentemente dal suo intervento diretto, ne hanno favorito l’affermazione, di volta in volta per inerzie, omissioni, spinte emulative, incapacità di elaborare conflitti e di evitare divisioni, carenze sul piano dell’immaginazione politica. Si comprende in questa chiave perché, nella prefazione al volume da loro curato, Ginsborg e Asquer (Cos’è il berlusconismo, pp. V-XXIX) riferiscano espressamente al centrosinistra italiano dal 1994 in poi l’aggettivo semileale, riprendendo l’attribuzione che Juan Linz riferì ai partiti democratici europei per descriverne l’atteggiamento dopo la prima guerra mondiale, le divisioni e le inerzie che favorirono l’ascesa delle destre (rif. a J. J. Linz, Crisis, Breakdown, and Reequilibration, in Id., A. Stepan, eds., The Breakdown of Democratic Regimes, John Hopkins University Press, Baltimore-London 1978).
Borsa, Piazza Affari crolla sotto il peso della crisi del governo. Dopo giorni di calma piatta, le minacce di dimissioni da parte dei parlamentari del Pdl tornano ad agitare gli investitori. La Borsa milanese è la peggiore d'Europa, zavorrata dalle banche, e lo spread sale oltre 245 punti in attesa dell'asta di Bot del Tesoro. Grande volatilità su Telecom. Positiva Tokyo sulla debolezza dello yen, negli Stati Uniti entrano nel vivo i dibattiti sul tetto all'indebitamento federale
LE IMPRESE DI SILVIO - G8: LA MADDALENA - La bonifica velenosa. "Già, un caso di scuola, la Maddalena. Non c'è angolo della Grande Opera che non porti le stimmate del Sistema. A cominciare dal mare su cui si affaccia. A fine luglio scorso, la Procura di Tempio Pausania, ha chiuso due anni di indagini del pm Riccardo Rossi e del Noe dei carabinieri di Sassari ed è pronta a chiedere 17 rinvii a giudizio per chi avrebbe dovuto bonificare i 60mila metri dello specchio d'acqua dell'ex Arsenale e, al contrario, lo ha avvelenato una seconda volta. In quel 2009, ballavano 7 milioni di euro per la bonifica e bisognava fare in fretta. Grattarono 50 centimetri di fondale marino di fronte all'ex Arsenale con le benne delle ruspe, smuovendo morchia e veleni depositati in mezzo secolo dalla Marina Militare italiana. E il dragaggio, per giunta, fu fatto a sbalzi, per accumulare più in fretta detriti. Mercurio e idrocarburi pesanti si dispersero in mare e le correnti hanno fatto il resto. Portando i sedimenti velenosi fino ai confini delle acque del Parco e obbligando a una nuova bonifica (per cui oggi non ci sono fondi sufficienti e non è stato ancora approvato un progetto) su un area grande il doppio di quella iniziale. Danni imprevedibili. Nessuno sa o può dire, in questo momento, quanto tutto questo abbia già intossicato o possa intossicare l'eco-sistema di uno degli angoli più belli del Mediterraneo (la situazione è monitorata dal Parco della Maddalena e dall'Arpas). Esattamente come nessuno sa prevedere i tempi dell'accertamento delle responsabilità dei 17 indagati per questo disastro dalla Procura di Tempio, una di quelle sedi giudiziarie, per dirne una, dove a metà settembre il tribunale è andato a fuoco notte-tempo per un tostapane e dove i gip si arrangiano nelle udienze preliminari in una ex scuola elementare."
G8 - LA CATASTROFE DELLA MADDALENA - Il saccheggio e l'inganno. "La Maddalena è un'altra Ilva", sostiene oggi Stefano Boeri, l'architetto che ha progettato la "Casa sull'acqua" dell'ex Arsenale, che per quel progetto deve ancora essere pagato (il suo debitore, il costruttore e corruttore Diego Anemone, ha dichiarato fallimento) e sotto i cui occhi quelle opere si sono trasformate in fantasmi. Regione, Protezione Civile, Mita Resort "sono come le tre scimmiette sul comò", frusta Angelo Comiti, che dell'Isola è il sindaco, ma più giusto sarebbe dire il primo naufrago, sintetizzando un'immagine e una filastrocca. Anche perché, senza girarci troppo intorno, la verità è che mille e seicento giorni dopo il 23 aprile del 2009, le parole con cui l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò il trasferimento della sede del G8 dalla Maddalena all'Aquila e l'allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso rassicurò l'Isola promettendo di averle quantomeno lasciato in eredità una Grande Opera che sarebbe diventata il volano di un'economia rimasta orfana della chiusura della base americana, dimostrano il cinismo di un inganno. Costruito intorno a un format che abbiamo imparato a conoscere con lo svelamento del Sistema Balducci-Protezione Civile. Dove lo Stato perde sempre. Nella fase iniziale di progettazione e realizzazione delle opere (gravate di un 30-50 per cento di maggiorazioni "in conto corruzione"). Nella fase di concessione al privato (regolarmente a prezzi di saldo). E nella sua fase finale, altrettanto regolarmente affidata al contenzioso "arbitrale", dove lo Stato, ancora una volta, si dispone docilmente a soccombere alla richiesta danni del privato (la Mita Resort in questo caso) nei cui confronti finisce per risultare inadempiente. Per non aver "mai consegnato i verbali di collaudo". Per non aver bonificato quel che c'era da bonificare.
Obama, il teatrino della pace tra Israele e Anp. Il processo di pacificazione in cui gli americani dicono di essere coinvolti è una grande bugia che non può portare a nulla di buono, scrive il docente Zvi Schuldiner - I due 11 settembre Il meno importante è quello del colpo di stato fascista avvenuto in Cile l'11 settembre del 1973. Patrocinato dagli Stati uniti, prodotto della politica di Nixon e Kissinger, fu un'ulteriore manifestazione di un imperialismo che aveva già colpito in tanti altri paesi: Iran, Guatemala, Vietnam, Cuba, etc. Al golpe seguirono migliaia di omicidi, l'oppressione - con il placet degli Usa - del popolo cileno e la creazione del primo vero laboratorio di quel neoliberismo che si sarebbe esteso ai centri del potere mondiale. Il più importante è quello del 2001, che costò la vita a migliaia di persone e servì da giustificazione all'avventura criminale intrapresa da Bush e soci in Iraq e in Afghanistan. Sullo scacchiere internazionale fecero la loro comparsa, una volta di più, «il nemico da educare», «le lezioni da dare al terrorismo», «le considerazioni strategiche» sulla base delle quali si scatenò la furia americana, dai crimini delle guerre di Bush alle «esecuzioni moderate» del premio Nobel per la pace Obama. Che, parlando alla nazione ha rivendicato «sette decenni d'impegno dell'America per la sicurezza del mondo». Gli Usa, in Pakistan, hanno eliminato Bin Laden, che anni prima loro stessi avevano mandato in Afghanistan per sconfiggere i sovietici; in Siria, alcuni gruppi che fanno capo ad Al-Qaeda ricevono appoggio da Washington e dell'occidente! Il criminale Assad combatte contro alcune forze democratiche e non pochi fondamentalisti. Russi e americani appoggiano le une e gli altri, dissanguando la società siriana, anche con molti altri scopi. Obama esagera, Kerry fa la voce grossa e consulta il Kissinger dell'altro 11 settembre; interviene Putin, quel grande democratico, per salvare la regione dalle nefaste conseguenze che avrebbe comportato per tutti l'«attacco chirurgico e limitato» minacciato dagli Usa. Morale e occupazione Che orrore e uccidere 1200 persone con il gas! Ammazzarne 100mila con le armi, invece, va bene. Gas? No! Il napalm e lo scempio del Vietnam, però, sì. Anche bombardare Panamá e uccidere migliaia di persone per catturare l'ex agente della Cia Noriega va bene. Quando Saddam è «dei nostri» e gasa le persone tenendo però a freno l'Iran, va tutto bene. E pure quando il governo «combatte il terrorismo» e accidentalmente fa strage di innocenti coi droni che si trovavano nelle vicinanze, non c'è nulla di male. In questo «gioco» di «gas e Siria», ultimatum di Obama, dubbie prove di Kerry, consultazioni con il saggio Kissinger per fortuna compare il democratico e omofobo amico di Assad, Putin, che con una mossa azzeccata ci risparmia un terribile scenario. Che fare? Ritornare ai negoziati di pace. Un israeliano assassinato venerdì 13, un altro lo scorso sabato. Certo, anche i palestinesi vengono uccisi; ogni settimana. Ma questo fa parte della «lotta contro il terrorismo». Ed ecco la grande risposta del primo ministro Netanyahu: più coloni a Hebrón, dove sabato è stato ucciso il militare israeliano. Le differenti menzogne Le menzogne di Obama e Kerry sulla Siria sono molto differenti rispetto a quelle sui negoziati di pace israelo-palestinesi. Il processo di pacificazione in cui gli americani dicono di essere coinvolti è una grande bugia che non può portare a nulla di buono. Mentre il governo di Hamas, a Gaza, è molto debilitato, quello di Abu Mazen, sembra offrire la possibilità di un rafforzamento della linea diplomatica. L'accerchiamento che subisce Hamas, inoltre, potrebbe portare quest'ultimo a riprendere gli attacchi nel sud per evitare un ulteriore indebolimento. Ad ogni modo la presunta forza di Abu Mazen si basa sull'appoggio israelo-statunitense e sul silenzio riguardo ai limiti e all'inconsistenza delle negoziazioni. Opposto ad Abu Mazen e al suo gruppo, c'è un governo israeliano di estrema destra, che accetta formalmente la retorica delle negoziazioni, dimostrando però quotidianamente di non poter condurle a nulla di serio. I ministri di Netanyahu ribadiscono ogni giorno la loro opposizione all'idea di due stati per due popoli, l`idea che, teoricamente, sta alla base di quelle che dovrebbero essere delle negoziazioni. Costoro dichiarano che è arrivato il momento di annullare gli accordi di Oslo, e appoggiano programmi che portano verso una progressiva annessione di fatto dei territori occupati nel 1967. L'attuale governo israeliano non ha realmente intenzione di accettare le responsabilità del passato: tra l'altro, implicherebbe il riconoscimento delle responsabilità verso i rifugiati, accettare il ritorno di alcuni di essi e indennizzarne altri. La paura viscerale del «ritorno di milioni di persone» è accompagnata da un crescente aumento, In Israele, del razzismo e del fascismo. L'attuale governo insiste con una costante espansione edilizia e con la presenza israeliana nei territori occupati. Questo comporta la violenta oppressione e repressione di 3milioni di palestinesi che, sotto un'occupazione violenta e arbitraria, sono esclusi dai più elementari diritti politici e umani. Nel migliore dei casi, la soluzione geografica proposta da Israele, non va oltre uno «stato palestinese demilitarizzato», limitato a una serie di bantustan sotto il controllo israeliano. Il Nobel per la pace continuerà a dimostrare le sue doti di grande oratore dal pulpito dell'Onu e dalla sua capitale imperiale e Kerry continuerà a cercare intrecciare parole come il suo consigliere Kissinger, senza tuttavia riuscire a nascondere che, insieme ai loro alleati israeliani, favoriti dalla passività europea, stanno attuando un gigantesco progetto di masturbazione pubblica che può portare a un falso accordo. Un accordo che incuberebbe i germi di un futuro sempre più tragico sia per il popolo palestinese sia per quello israeliano.
How animals perceive time Slo-mo mojo - Small creatures with fast metabolisms see the world like an action replay - FLIES live shorter lives than elephants. Of that there is no doubt. But from a fly’s point of view, does its life actually seem that much shorter? This, in essence, was the question asked by Kevin Healy of Trinity College, Dublin, in a paper just published in Animal Behaviour. His answer is, possibly not. Subjective experience of time is just that—subjective. Even individual people, who can compare notes by talking to one another, cannot know for certain that their own experience coincides with that of others. But an objective measure which probably correlates with subjective experience does exist. It is called the critical flicker-fusion frequency, or CFF, and it is the lowest frequency at which a flickering light appears to be a constant source of illumination. It measures, in other words, how fast an animal’s eyes can refresh an image and thus process information. For people, the average CFF is 60 hertz (ie, 60 times a second). This is why the refresh-rate on a television screen is usually set at that value. Dogs have a CFF of 80Hz, which is probably why they do not seem to like watching television. To a dog a TV programme looks like a series of rapidly changing stills. Having the highest possible CFF would carry biological advantages, because it would allow faster reaction to threats and opportunities. Flies, which have a CFF of 250Hz, are notoriously difficult to swat. A rolled up newspaper that seems to a human to be moving rapidly appears to them to be travelling through treacle. Mr Healy reasoned that the main constraints on an animal’s CFF are its size and its metabolic rate. Being small means signals have less far to travel in the brain. A high metabolic rate means more energy is available to process them. A literature search, however, showed that no one had previously looked into the question. Fortunately for Mr Healy, this search also showed that plenty of people had looked at CFF in lots of species for other reasons. Similarly, many other people had looked at the metabolic rates of many of the same species. And size data for species are ubiquitous. All he had to do, therefore, was correlate and repurpose these results. Which he did. To simplify matters he looked only at vertebrates—34 species of them. At the bottom end of the scale was the European eel, with a CFF of 14Hz. It was closely followed by the leatherback turtle, at 15Hz. Tuataras clocked in at 46Hz. Hammerhead sharks tied with humans, at 60Hz, and yellowfin tuna tied with dogs at 80Hz. The top spot was occupied by the golden-mantled ground squirrel, at 120Hz. And when Mr Healy plotted his accumulated CFF data against both size and metabolic rate (which are not, it must be admitted, independent variables, as small animals tend to have higher metabolic rates than large ones), he found exactly the correlations he had predicted. The upshot is that his hypothesis—that evolution pushes animals to see the world in the slowest motion possible—looks correct. Flies may seem short-lived to people, but from a dipteran point of view they can thus live to a ripe old age. Remember that next time you try (and fail) to swat one. From the print edition: Science and technology
Il monito degli economisti: “Basta austerità o per l’euro sarà la fine” Nel giorno in cui i media celebrano la vittoria della Merkel in Germania il “Financial Times” pubblica un documento che interpreta molto diversamente la fase e che guarda più avanti: "La tregua sui mercati è solo temporanea. In assenza di condizioni per una svolta di politica economica l’euro è condannato". The economists’ warning*, Financial Times, 23 Settembre 2013 La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell’Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali; la Germania e gli altri paesi centrali dell’eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell’attuale stallo politico europeo e dell’imbarazzante susseguirsi di vertici dai quali scaturiscono provvedimenti palesemente inadeguati a contrastare i processi di divergenza in corso. Una ignavia politica che può sembrare giustificata nelle fasi meno aspre del ciclo e di calma apparente sui mercati finanziari, ma che a lungo andare avrà le più gravi conseguenze. Come una parte della comunità accademica aveva previsto, la crisi sta rivelando una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea. Le autorità europee hanno compiuto scelte che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione. Nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera sottoscritta da trecento economisti lanciò un allarme sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità”: tali politiche avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Quell’allarme rimase tuttavia inascoltato. Le autorità europee preferirono aderire alla fantasiosa dottrina dell’“austerità espansiva”, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione, favorendo così la diminuzione dei tassi d’interesse e la ripresa economica. Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Gli stessi fautori della “austerità espansiva” adesso riconoscono i loro sbagli, ma il disastro è in larga misura già compiuto. C’è tuttavia un nuovo errore che le autorità europee stanno commettendo. Esse appaiono persuase dall’idea che i paesi periferici dell’Unione potrebbero risolvere i loro problemi attraverso le cosiddette “riforme strutturali”. Tali riforme dovrebbero ridurre i costi e i prezzi, aumentare la competitività e favorire quindi una ripresa trainata dalle esportazioni e una riduzione dei debiti verso l’estero. Questa tesi coglie alcuni problemi reali, ma è illusorio pensare che la soluzione prospettata possa salvaguardare l’unità europea. Le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un’azione coordinata da parte di tutti i membri dell’Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee. Nel 1919 John Maynard Keynes contestò il Trattato di Versailles con parole lungimiranti: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». Sia pure a parti invertite, con i paesi periferici al tracollo e la Germania in posizione di relativo vantaggio, la crisi attuale presenta più di una analogia con quella tremenda fase storica, che creò i presupposti per l’ascesa del nazismo e la seconda guerra mondiale. Ma la memoria di quegli anni sembra persa: le autorità tedesche e gli altri governi europei stanno ripetendo errori speculari a quelli commessi allora. Questa miopia, in ultima istanza, è la causa principale delle ondate di irrazionalismo che stanno investendo l’Europa, dalle ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male fino ai più inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo. Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle sole “riforme strutturali”, il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro. Promosso da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), il “monito degli economisti” è sottoscritto da Philip Arestis (University of Cambridge), Georgios Argeitis (Athens University), Wendy Carlin (University College of London), Jesus Ferreiro (University of the Basque Country), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), James Galbraith (University of Texas), Mauro Gallegati (Università Politecnica delle Marche), Eckhard Hein (Berlin School of Economics and Law), Alan Kirman (University of Aix-Marseille III), Jan Kregel (University of Tallin), Heinz Kurz (Graz University), Alfonso Palacio-Vera (Universidad Complutense Madrid), Dimitri Papadimitriou (Levy Economics Institute), Pascal Petit (Université de Paris Nord), Dani Rodrik (Institute for Advanced Study, Princeton), Malcolm Sawyer (Leeds University), Willi Semmler (New School University, New York), Felipe Serrano (University of the Basque Country), Engelbert Stockhammer (Kingston University), Tony Thirlwall (University of Kent). *”Il monito degli economisti” è stato pubblicato nella versione inglese dal Financial Times il 23 settembre 2013. Per firmare il “monito”, per contattare i promotori e per tutti i materiali si rinvia al sito web: www.theeconomistswarning.com.
Decadenza, Berlusconi: colpo di Stato E si prepara a scendere in piazza - Azzurri spiazzati dalla brusca sterzata ma i ministri per ora esentati dallo strappo. Brusco faccia a faccia Alfano-Franceschini. Una manifestazione in agenda per domani. - «Ormai ne sono sicuro: i giudici vogliono arrestarmi, vogliono umiliarmi». Così esordisce un Silvio Berlusconi che ammette su di sé anche un dramma personale , davanti ai gruppi parlamentari riuniti nella sala della Regina della Camera dei Deputati. Berlusconi intrattiene i suoi soldati ripercorrendo, per filo e per segno, tutte le sue disavventure giudiziarie, i suoi cinquanta processi e una «magistratura comunista che mi vuole ammazzare da vent’anni». Ho mandato l’altro giorno – spiega - Angelino Alfano al Colle, ma Napolitano continua solo a prendermi in giro. Pretende io segua un percorso di riabilitazione da gulag stalinista. Dovrei attendere il ricalcolo dell’interdizione, iniziare a scontare la pena e poi, una volta rieducato, chiedere la grazia. Non hanno capito chi sono io e con chi hanno a che fare. Ora basta! Dobbiamo mandare un segnale. I sondaggi danno la nostra Forza Italia già al 36%. Se si vota vinciamo!». Di qui la decisione anche di convocare subito, domani pomeriggio, una manifestazione a Roma. Già deciso lo slogan: «Siamo tutti decaduti».
Vendita Telecom, Giuseppe Vegas: "Non c'è l'obbligo di opa da parte di Telefonica" - Non c'è, allo stato attuale e con la normativa vigente, un obbligo di Opa di Telefonica su Telecom. Lo afferma il presidente Consob Giuseppe Vegas in audizione al Senato secondo cui mancano le due condizioni "che l'operazione comporti l'acquisizione del controllo di Telco da parte di Telefonica e che Telco detenga più del 30% di Telecom"
«Una grande coalizione sociale per uscire dalla frammentazione e trasformare l'Italia». Le parole d'ordine del 12 ottobre secondo Bonsanti, Ciotti, Landini e Rodotà. - Sandra Bonsanti: «Non vogliamo fare un altro partito politico». L'obiettivo, piuttosto, è una «grande coalizione sociale per la democrazia e i diritti», che assuma la Costituzione come punto fermo da cui ripartire e ne dia una lettura non imbalsamata ma innovativa, la consideri una «compagna di strada» (don Ciotti) attraverso la quale «trasformare questo Paese» (Landini).
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